È stata inaugurata nel mese di luglio 2023 la mostra fotografica di Fabio Fischetti “contadini meridiani” curata da Antonia Bellafronte
Dalla paesaggistica, dove il soggetto è immobile “in posa”, alla fotografia sportiva, che impone di misurarsi con la velocità del movimento. Questa è la prima tappa che scandisce il percorso artistico di Fabio Fischetti, iniziato, quasi fortuitamente, quando riceve in dono una macchina fotografica che diventa strumento privilegiato per soddisfare la sua innata curiosità. In breve, l’obiettivo viene eletto ad estensione metafisica dell’occhio e la pellicola funge da diaframma attraverso cui osservare e interpretare ciò che circonda. Nella camera oscura, infine, il noumenico dell’estro creativo viene tradotto in carta, luce e colore.
Anni di esperienza e studio affinano la tecnica e conducono Fischetti al felice approdo del ritratto: dopo i primi esperimenti con familiari e amici, il fotografo acquista confidenza con la materia ed esce dal recinto noto, spingendosi negli eventi pubblici, ricercando nel caleidoscopio della folla lo sguardo rivelatore del singolo, i dettagli dei lineamenti che tradiscono l’intimo stato d’animo dell’individuo.
È ancora il destino a dirigere la sua ispirazione verso la fotografia per matrimonio: un amico gli affida la cura del suo lieto evento ed il risultato è sorprendente.Il bagaglio delle conoscenze conquistate conferisce agli scatti visione e profondità prospettiche inedite; il passaparola non tarda a portare i suoi frutti e Fabio Fischietti si afferma come uno dei più stimati e apprezzati professionisti della fotografia per cerimonie, la cui missione è “dare voce alla bellezza”, instaurando un rapporto empatico con chi si pone davanti all’obiettivo. Ad iniziare dalla sposa, che viene presa per mano, infondendole quella fiducia necessaria a superare ansie e paure che affollano il fatidico giorno del “sì”.
La perfetta crasi di empatia e determinazione narrativa, infine, indirizza Fischetti verso il più recente traguardo della fotografia sociale. L’immagine si fa denuncia e coscienza del cortocircuito dell’epoca post-moderna, “un’arma nella lotta”, come suggerisce Gisèle Freund, per alimentare il riscatto delle identità individuali e collettive. In definitiva, ogni istantanea si candida a “memoria visiva”, destinata a lasciare un retaggio della sua personale concezione del mondo.
Da Thorimbert a Martin Parr, passando per i maestri italiani
La cartina tornasole dell’evoluzione artistica fin qui delineata la si trova nella galleria degli illustri maestri che hanno nutrito la formazione di Fischetti. Se il suo mentore è identificabile in Toni Thorimbert, l’estetica iconica di Peter Lindbergh accompagna la fase della ritrattistica di moda. Franco Fontana diventa un punto di riferimento per la paesaggistica, con i suoi panorami rurali in cui, mediante l’abuso calcolato di linee geometriche e colori ipertrofici, restituisce una rappresentazione astratta. La biografia di Vivian Maier, antesignana della street art, rafforza la consapevolezza che il riconoscimento del fotografo in quanto artista non può che essere postumo, quando, magari, si svilupperanno i negativi accumulati in un baule e si scoprirà un tesoro. Da Martin Parr, invece, Fischetti mutua la capacità di cogliere il grottesco del luogo comune, lanciandosi in incursioni nell’ordinario per mettere a nudo il paradosso di fondo che regola le idee stereotipate, tanto orribili quanto rassicuranti.
“Vite che sanno di Circo”
La fragilità umana che si cela dietro lo sfarzo del tendone
La prova generale della vena sociale di Fabio Fischetti è il progetto “Vite che sanno di Circo”, nato nel 2015, che ha visto la luce nel 2022 con la personale allestita nel foyer inferiore del Teatro Rossini di Gioia del Colle.
Come annota Antonia Bellafronte, braccio destro di Fischetti e curatrice della mostra, «gli scatti raccontano di tre giorni vissuti dal fotografo a stretto contatto con i circensi», proponendo una narrazione drammatizzata, incentrata sulla «parte più prosaica della vita quotidiana nella roulotte, l’espressione artistica dello spettacolo e dei suoi preparativi, la dimensione introspettiva di un volto che, con il trucco, diventa maschera. Poi c’è il silenzio, grande protagonista. Non si vede ma si percepisce, anche grazie all’assenza di colori. Questo senso quasi onirico di sospensione rende le scene assolute, destoricizzate, universalmente valide».
Ed effettivamente, tali coordinate del lavoro di Fischetti si riscontrano fin dalla scelta del soggetto: un piccolo circo di famiglia, tramandato di padre in figlio, dove ciascuno si prodiga per portare avanti l’impresa, adempiendo a più mansioni. Non si mira a scrivere una roboante epopea di un circo blasonato; piuttosto emerge l’istanza di mettere in discussione l’artificiosità dell’archetipo che ritrae il circo come una parata briosa. Una missione concretizzata attraverso due scelte tecniche: il grandangolo, il cui esito deformante accentua l’effetto finzione, ed il bianco e nero. Infatti, seppur le foto sono stampate in quadricromia, il fotografo imbriglia la dirompente forza dello spettro dei colori, dando sostanza allo stridore tra l’immagine translucida del mondo circense e la fragilità umana dei protagonisti che popolano il dietro le quinte. Si “spengono le luci” e si disvela il manto di tristezza celato prima e dopo lo spettacolo, nella ritualità del lavoro quotidiano.
Tuttavia, in questo tagliente gioco di luce e ombra, non viene smarrita la misura del sogno, dello stupore che attinge alle reminiscenze che hanno visto ogni bambino lasciarsi sedurre dal fascino del tendone; un innamoramento genuino e privo di qualsivoglia sovrastruttura. «Quello di Fischetti – avverte Bellafronte – è uno sguardo empatico e partecipante sulle figure del circo: le cattura da un punto di vista privilegiato, ma non ne altera l’espressività né se ne fa interprete. Lui, semplicemente, registra e racconta: la grazia di un sorriso o la levità di una espressione gioiosa, di stupore, o la trepidazione della paura, consegnandoci un’immagine dello spettacolo, che siamo abituati a considerare a colori, ridefinito dall’uso del bianconero».
“Contadini Meridiani”
Il nitido affresco dell’ultimo baluardo della civiltà contadina
Nell’estate del 2020, a ridosso della conclusione della pandemia, l’imposta quiete lavorativa si trasforma nell’opportunità di dedicarsi ai progetti che, per mancanza di tempo, erano rimasti chiusi in un cassetto. E così Fischetti, con la complice discrezione della sua Leica, si avventura nel lembo di terra di Montursi, una frazione di Gioia del Colle che dista poco più di 15 chilometri dalla città. Bussa alle porte di oltre duecento masserie per dar vita ad un resoconto, corale e neorealistico, della vita dei massari, spinto dalla voracità di conoscere e immortalare le loro storie prima che se ne perda traccia.
L’impresa non è semplice. Non tutti i contadini accettano di farsi fotografare: alcuni difendono con i denti la propria intimità; altri, invece, si aprono in un accogliente sorriso. L’allenamento e il bagaglio culturale che porta con sè aiutano Fischetti a superare la naturale diffidenza, costruendo un’affinità elettiva proseguita anche dopo la fine del progetto.
Al termine dell’intenso cammino ne viene fuori una sublime “etnografia visuale” che, senza cedere il fianco alla mitizzazione, testimonia l’ultimo baluardo della civiltà contadina. Fischetti pone i massari davanti all’obiettivo e li coglie nella loro disarmante naturalezza, azzerando la distanza tra chi racconta e chi si lascia raccontare. Il risultato è un’ipnotica carrellata di volti bruciati dal sole e guance solcate dalla fatica, mani callose, braccia conserte o stese lungo i fianchi, primi piani di antichi contadini sorridenti o assorti a contemplare la terra, accompagnati dal proprio cane o intenti a far mostra degli animali dell’aia.
Sono i dettagli dei corpi che, con la loro sommessa potenza, enunciano il sudore dei campi; ecco perché il fotografo sceglie come “scenografia” un pannello bianco, quasi a voler astrarre il soggetto della sua recherche dal contesto e consegnarlo all’ontologia della storia.
Alle immagini d’autore sono poi accostate quelle del backstage: si squarcia il velo bianco ed esplode la resilienza di un popolo che, come suggerisce la curatrice Antonia Bellafronte, appare “arcaico nelle forme e nei contenuti, che vive di sé stesso ed è autosufficiente”. In questi scatti, Fischetti ci regala l’intatta purezza di un mondo che percepiamo lontano, in cui il rumore della modernità si è fermato al confine e la tecnica meccanizzata non è permeata; una “terra di mezzo” non ancora contaminata dalla frenesia della rete e dal neo-apostolato dei social, in cui il tempo è sillabato dai ritmi del cielo.
Nessuna mitizzazione si diceva. Difatti, nelle pieghe dei fotogrammi si fa spazio la spiazzante inquadratura a sfondo sociale di un mondo in frantumi per almeno due ordini di ragioni.
La prima è che i massari sono vittime prescelte di una mutazione antropologica che li ha condannati all’estinzione: stretti nella morsa asfittica di una globalizzazione fuori controllo, che ha “truccato” le regole del gioco, si dibattono tra la costante diminuzione del prezzo di vendita del latte e l’aumento del costo dei mangimi. La maggior parte si è ingegnata coltivando le terre a foraggio per sfamare il bestiame, tuttavia, negli ultimi due anni, la sorte è stata avversa: la prolungata siccità ha bruciato il raccolto, costringendo ad indebitarsi per far fronte alle spese.
La seconda riflessione attiene l’ineluttabile scomparsa di un inestimabile patrimonio: ormai ottantenni, i massari continuano a condurre una vita di sacrifici, per fatalismo verghiano o perché è l’unica che abbiano mai conosciuto. Ma sono gli ultimi disposti a farlo: salvo rarissime eccezioni, i figli non intendono seguire le orme dei padri, il che implica che tra due decenni queste masserie non esisteranno più, non ci saranno più braccia e cuori che si prenderanno cura della terra.
Affiora, allora, ancor più il valore di questa mostra che, domani, sarà uno dei pochi documenti della severa ieraticità di un’epoca irrimediabilmente perduta.
Anche la scelta del luogo dove ambientare la mostra è frutto di un ponderato ragionamento. Fischietti scarta a priori l’idea di confinare l’esposizione in una masseria: non vuole che tutto venga svilito in una sorta di fiera, in cui si passano in rassegna distrattamente le merci in vetrina, o si riduca ad una gita domenicale allo “zoo di vetro” fatta di occhiate sospese tra stupore e commiserazione. Il suo desiderio è che le vite dei massari arrivino al fruitore non come qualcosa di “altro da sé”, bensì come pietra angolare della propria identità. Il presente deve fermarsi per un istante, voltarsi indietro e scrutare la congerie valoriale che lo ha generato. In quest’ottica, inizialmente si pensa alla Biblioteca: in passato sede di una scuola media, frequentata da buona parte dei gioiesi, è lo spazio ideale per animare l’ambita corresponsione di sensi e attingere al fondo di un vissuto comune. Questioni logistiche impongono di optare per il Chiostro comunale, dove comunque i massari saranno accolti e festeggiati al pari di ospiti d’eccellenza.
Inutile dire che quella di Gioia del Colle sarà solo la prima tappa di una mostra itinerante che, riprendendo le parole della curatrice Antonia Bellafronte, carpisce «la bellezza contenuta nei loro ambienti, la poeticità della dimensione più ancestrale, la durezza dei corpi e la fierezza degli sguardi, frutto di un profondo orgoglio, rappresentato non solo dal lavoro, dal senso del dovere, ma anche dalla famiglia e dalla costante prospettiva di costruzione, nel pieno rispetto delle tradizioni».