Facciamo un giro tra la Alberobello antica e la città moderna. Dall’architettura a secco ai primi leganti. Senza dimenticare il tocco dell’antico Egitto.
Gutta cavat lapidem, dicevano gli antichi. La goccia scava la pietra. Alberobello è un monumento di pietra a cielo aperto che conserva intatti i segni del tempo e delle intemperie. Negli anziani è ancora vivo il ricordo della straordinaria nevicata del 1956, quando sui coni di roccia calcarea si posò un metro di neve. La legna per scaldarsi non era mai abbastanza. I carri con i buoi fermi e le stradine impercorribili. “Non si poteva uscire dalle case”, ricorda l’attuale presidente della Pro Loco, Nicola Redavid, che sta raccogliendo le storie di chi viveva in queste umili dimore. Storie semplici, di fatica e sudore. Mentre tutto attorno si andava delineando lo scenario che decenni dopo avrebbe portato la città alla consacrazione mondiale.
Alberobello è un’esperienza da vivere. Non vi è forse un percorso delineato e chiaro da seguire, ma è una immersione nelle epoche e nei costumi.
Il tempo si è fermato in alcune zone. Mentre in altre, oggi, è possibile ripercorrere la via verso la modernità. Quasi un segno tangibile del successo che Alberobello avrebbe raggiunto. Nella parte nord della città, ad esempio, svettano oggi, orgogliose, le cime del Trullo Sovrano, alle spalle della Chiesa dei Santi Medici Cosma e Damiano. Esso rappresenta l’unico trullo ad avere un piano sopraelevato, raggiungibile dall’interno attraverso una scala in muratura, tra i primi ad essere costruito con la malta. La maestosa cupola conica, alta circa 14 metri, si erge imponente al centro di un gruppo costituito da dodici coni. Trullo Sovrano è, dunque, un edificio di transizione che preannuncia il mutamento generale nella tecnica di realizzazione dei trulli, infatti il maestro murario, rimasto ignoto, adottò soluzioni costruttive uniche che fanno di questo edificio la più avanzata e mirabile interpretazione dell’architettura a trullo.
La mano della modernità che si amalgamava alla più remota antichità, si può intuire osservando il faraonico progetto, realizzato dall’architetto Antonio Curri, del cimitero monumentale risalente al 1904 (ampliata dal 1975). Egli, prediligendo la ripresa dello stile egizio, aveva proposto l’edificazione di un doppio ordine di colonne e di una cappella centrale, fiancheggiata da una piramide e da un obelisco.
Il prospetto presenta un pronao di dodici colonne sormontate da capitelli e fiancheggiato da due torri. La trabeazione, costituita da un architrave piano con cimasa, è decorata da motivi ripresi da antichi monumenti.
Il colonnato immette in una grande corte, provvista di ampie scalinate a nord, a est e a ovest, che salgono lungo il colle sul quale il cimitero fu edificato. Tramite queste, si raggiunge un primo spiazzo che presenta la cappella a pianta centrale, edificata da pochi decenni e mancante della prevista cupola, dove sono ubicate le tombe dei vescovi e dei sacerdoti di Alberobello.
È questo solo uno dei mille volti di una città che sorprende.
Uno degli angoli nascosti per poter abbracciare l’antichità è certamente il grande Trullo della contrada Paparale, situato alle porte del paese, alle spalle del Calvario. Paparale è un ulteriore esempio di come una tecnica costruttiva apparentemente così rudimentale abbia consentito di edificare edifici di una certa imponenza. Questo grande edificio rurale, costruito senza alcun legante, presenta una pianta ellittica e una copertura insellata. I vertici dei coni, infatti, sono stati congiunti, colmando l’ansa tra essi. Agli spessi muri perimetrali è addossato un gradone, con stretto ballatoio, nel cui spessore è stato ricavato l’ingresso. Quest’ultimo, arcuato e sovrastato da un frontone, risulta sporgente rispetto al corpo di fabbrica, così come una parte, coperta a conversa, addossata sul fianco destro della struttura.
Non sappiamo per quale motivo esso sia stato costruito. Lo storico locale Giuseppe Notarnicola nel 1940 scriveva così: “È tradizione che questo trullo – di età indeterminata ma vetusta -, fosse un oratorio; ipotesi che il nome del luogo, di greca derivazione, pare confermarci, significando appunto “dimora di sacerdote”.
Il trullo, di proprietà privata, non è visitabile. È possibile ammirarlo facilmente dalla strada o sporgendosi dai muretti a secco, altro patrimonio storico paesaggistico, che circondano l’area.
Dell’utilizzo della malta come legante tra le pietre si può intuire la traccia nella Casa D’Amore, splendida sede dell’attuale Assessorato al Turismo e monumento nazionale dal 1930. Secondo una tradizione ormai radicata, il 22 giugno del 1797, mentre veniva eletto il primo sindaco, Francesco D’Amore, si cominciava a costruire questa casa, la prima ufficialmente in cotto, vale a dire con l’uso di malta.
Con il suo dispaccio, infatti, il Re decretava che gli alberobellesi potessero fabbricare case nel modo ad essi più comodo, senza essere impediti dal Conte di Conversano. L’evento era ulteriormente testimoniato dalla piccola epigrafe, posta sotto l’arco che segna l’area del balcone, che riporta la seguente iscrizione: “EX AUCTORITATE REGIA – HOC PRIMUM ERECTUM – A.D. 1797”.
La sua ubicazione, nell’attuale Piazza Ferdinando IV di Borbone, non è casuale. Essa, infatti, con il suo primo piano era perfettamente visibile dalla vicina abitazione dei Conti. Tale struttura rappresenta un vero e proprio passaggio tecnico-costruttivo dalle prime case a trullo alle abitazioni ottocentesche. In realtà, la facciata lascia immaginare la presenza di vani interni ben diversi da quelli che in realtà sono.
La stanza d’accesso, al posto del consueto cono lapideo, presenta una volta a stella. Tutti gli altri ambienti non sono molto dissimili da quelli delle case a trullo che circondavano l’abitazione. L’unico elemento d’unicità evidente, se si esclude l’uso di malta, è il piano sopraelevato raggiungibile esternamente tramite una scala. Questo è composto da tre angusti ambienti conici, posti su differenti livelli. Al primo vano, determinato da un trullo più ampio, segue un piccolo ambiente conico, che in origine era collegato al pianterreno tramite una botola. L’ultimo di tali locali, che poggia sulla volta a stella del sottostante vano principale, consente l’affaccio al balconcino.
Molto probabilmente, per l’edificazione della casa, Francesco D’Amore interpellò un semplice caseddaro (muratore), abituato a costruire o restaurare trulli.
Nel 1843, dai verbali del Consiglio Comunale di Alberobello, emerge che non vi era un architetto locale che potesse far parte della commissione preposta alla cura delle nuove costruzioni affinché fossero regolari e di non spiacevole architettura a meno che non si volesse definire architetto uno degli infelici muratori o trullari.
Ad Alberobello il tempo non si è certamente fermato. Ciascuna pietra racconta una storia, un’epoca, e tutto si incastra nella meraviglia del tempo e dello spazio che scorrono.